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Remote-working leadership ed emozioni

Pubblicato il: 07/08/2020
Da: Dott.ssa Marta Trevisan
Remote-working leadership ed emozioni

Smart-working: la situazione attuale

Con l’inizio del lockdown italiano causato dalla pandemia di Covid-19, i primi giorni di marzo 2020 molte donne e molti uomini manager si sono trovati catapultati nel compito, spesso del tutto nuovo per loro, di gestire i team da remoto.

Quando si approccia al tema del remote working (o lavoro agile o smartworking – parole che abbiamo imparato a conoscere  in fretta in questi mesi – anche se ognuna porta con se sfumature diverse) i consigli più frequenti che vengono dati dalle aziende e dalle persone che hanno implementato questi sistemi è quello di procedere con piccole sperimentazioni, un po’ alla volta, e fare degli aggiustamenti fino ad arrivare ad una modalità di lavoro a distanza “cucita addosso” alla cultura e al business del lavoro stesso.

La pandemia generata dal Covid-19 non ha dato spazio per questa sperimentazione ai leader delle aziende che non avevano iniziato la strada dello smartworking in tempi precedenti. Ognuno di loro ha affrontato la sfida che gli si è presentata facendo ricorso alle risorse personali che aveva (stress management, capacità di adattamento, stile comunicativo, organizzazione del tempo…) e alle risorse aziendali a disposizione, in particolare il team dell’IT e delle HR. In quel momento, molti di loro non si sono soffermati a sentire ciò che stava succedendo a loro come persone, quali emozioni stessero provando e quali pensieri li stessero guidando, perché era tutto molto veloce ed intenso.

Nelle prime settimane di lockdown, che quasi tutti ricordano come drammatiche e sospese, le emozioni delle persone si sono manifestate con forte intensità e mescolavano la reazione collettiva al timore per la propria salute e quella dei cari con la reazione specifica di ogni manager rispetto al come riuscire a mantenere la produttività dei propri team, che si trovavano fisicamente distanti e, probabilmente, in una condizione emozionale difficile.

Ora che sono passati alcuni mesi e il picco emotivo legato alla pandemia è sceso, può essere possibile per i manager portare un po’ di consapevolezza rispetto al loro rapporto con l’homeworking, in modo da poter fronteggiare quello che sarà, secondo diversi giornalisti, futurologi e leader, l’assetto lavorativo nei prossimi anni (a questo proposito, è interessante l’articolo di Cal Newport pubblicato sul numero di Internazionale del 2 luglio 2020 – È la fine dell’ufficio?).

Leadership e consapevolezza

Avere un approccio emotivamente intelligente alle situazioni (e alla vita, in generale) consente di ottenere performance migliori, avere una vita relazionale più appagante e, in ultimo, godere di un maggiore benessere come abbiamo spiegato in due articoli dedicati all’intelligenza emotiva:  – A che cosa serve l’intelligenza e come svilupparla – e  – Intelligenza emotiva in azienda -. Dunque, poiché il lavoro da remoto, lo smartworking e il lavoro agile continueranno avere un grande impatto nella nostra vita quotidiana, aumentare l’autoconsapevolezza sulle emozioni che i leader aziendali provano nei confronti della gestione dei team a distanza è di certo una decisione strategica che consentirà alle aziende di trovare le soluzioni migliori e più calzanti per la creazione e la gestione di team “virtuali” efficaci e in benessere.

Come potenziare le prestazioni del team grazie all’intelligenza emotiva

La domanda fondamentale che ogni manager che desidera rendere più produttivo il proprio lavoro da remoto e quello delle sue persone dovrebbe porsi è:

“Quali sono le emozioni che provo al pensiero di gestire il mio team in smartworking?”

La seconda domanda dovrebbe essere:

“Quale messaggio mi stanno portando queste emozioni?”

E ultimo quesito:

“Come posso usare queste informazioni emozionali per raggiungere ciò che desidero per il mio team, cioè il suo benessere e la sua produttività?”

Secondo dei risultati pubblicati dal sito remote.co una delle emozioni più frequenti dei manager che si approcciano a gestire un team a distanza è la paura, con tutte le sue sfumature – a seconda anche della predisposizione di ogni singola persona (trepidazione, apprensione, nervosismo, ansia, paura, panico, terrore …).

Ogni emozione è portatrice, come suggerivo prima, di un messaggio, di un’informazione per chi la prova e per chi la osserva; le emozioni che appartengono al gruppo semantico dell’emozione primaria della paura porta con sè questo tipo di pensiero “qualcosa che è importante per me potrebbe essere minacciato”, “potrei perdere, rovinare un aspetto rilevante della mia vita”.

Dunque, se noi proseguiamo nel chiedere a chi ha ruoli di leadership che cos’è che teme di perdere o che sente essere sotto minaccia (attraverso un processo che potremmo definire a spirale) arriviamo al nocciolo dell’informazione che sosterrà, poi, la costruzione di una risposta efficace nella gestione efficace di un team che lavora da remoto. Quando si arriva in fondo alle domande ad “imbuto”, la maggior parte dei manager risponde che teme di perdere il controllo di ciò che succederà, controllo che consente loro, ad oggi, di raggiungere gli obiettivi aziendali che gli vengono assegnati.

Come abbiamo scritto nell’articolo dedicato alla fiducia e al controllo in ambito aziendale, al lato opposto del bisogno di controllo, troviamo il bisogno e la capacità di provare fiducia, costrutto psicologico sul quale hanno fondato la loro cultura le aziende che sono efficaci nel gestire i team a distanza.

A questo proposito, è interessante citare la risposta del fondatore di HANNO (azienda di design di software nel settore benessere e salute che lavora da remoto da anni) che è stato in grado di ridurre l’intensità dell’emozione della paura in modo da trasformarla, probabilmente, prima in accettazione e successivamente in fiducia:

“When we started out, especially when we had to grow and hire new people, my biggest fear was that they’d not work hard and would be looking to take advantage of us. That classic fear when you can’t see what people are doing. That they might not be doing anything at all! That couldn’t have been further from the truth, but. I think what was key to making that happen was telling myself to stop worrying about holding people accountable and pushing them to be more productive, and instead to focus on the flip side of that: motivating people, supporting them and trying to make sure they’re as happy as possible. With those factors taken care of, productivity has been an almost inevitable side-effect.”

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