Dall’ufficio al lavoro a distanza
Ho iniziato a lavorare “a distanza”, o in “remote” (come va di moda dire ora) 6 anni fa.
Fino ad allora il mio lavoro prevedeva la presenza fisica in uno stesso luogo, tutti i giorni, con degli orari chiari e non molto flessibili; la mia quotidianità era scandita da una serie di piccole abitudini alcune poco piacevoli, altre rassicuranti, gradevoli o divertenti: salutare la collega alla reception e scambiare due parole con lei; dirigermi verso la mia postazione e, mentre attendevo l’accensione del pc, prepararmi il caffè alla macchinetta dove incrociavo colleghi di un’area di business diversa dalla mia; stand up meeting (quando ancora non si chiamavano così) con chi collaborava con me sugli stessi progetti.
Non era sempre semplice la convivenza, ma lo scambio di informazioni veloci era frequente e naturale: non c’era bisogno di fissare un appuntamento per un aggiustamento sulla relazione da tenere con un cliente o sulla presentazione da preparare per il workshop imminente. In alcuni momenti, al contrario, desideravo “una stanza tutta per me” perché la mia scrivania era in un openspace.
Ben presto, con il mio cambio di modalità lavorativa, ho compreso che per raggiungere buoni risultati lavorando su progetti in collaborazione con persone distanti fisicamente, avevo bisogno di modificare il mio modo di comunicare: di fare richieste, di offrire la mia competenza e di dare feedback. Perché se prima, la “co-abitazione” degli stessi spazi lavorativi mi permetteva di essere anche non del tutto precisa nelle richieste iniziali in merito ad un output che desideravo ottenere – ero fiduciosa di poter aggiustare il tiro in modo semplice, fluido e veloce (senza dover pianificare sul “Calendar” un appuntamento con il collega), ora dovevo diventare più intenzionale nella mia comunicazione, perché non avevo più a disposizione la risorsa del “mi affaccio al suo ufficio e lo aggiorno sulle ultime novità”.
Proseguendo nella mia esperienza da free-lance e raccogliendo i racconti dei clienti che già lavoravano da tempo con team distribuiti in diverse parti del territorio, ho capito che questa intenzionalità non andava applicata solo alle conversazioni legate agli aggiornamenti e alla pianificazione, ma anche sul delicato processo di feedback.
Il feedback nelle relazioni interpersonali
Il termine «feedback» deriva dal verbo inglese «to feed» (nutrire). Quindi il feedback è un qualcosa che ci torna indietro e che ci nutre; significa, cioè, che noi agiamo un comportamento o facciamo un’affermazione e, in conseguenza a ciò, riceviamo una risposta dall’ambiente e dalle persone in interazione con noi.
Una risposta che ci alimenta, di informazioni preziose, sulla direzione da prendere.
Secondo Tom Stafford, scienziato cognitivo dell’Università di Sheffield, il feedback è l’essenza dell’intelligenza: “Grazie al feedback possiamo diventare più di semplici programmi con semplici riflessi e sviluppare risposte all’ambiente più complesse “, perché “il feedback consente agli animali come noi di seguire uno scopo”. Il processo di feedback, inoltre, non ci permette solo di raggiungere i nostri obiettivi quando lavoriamo da soli, ma è fondamentale quando collaboriamo con altre persone (quindi, a conti fatti, nella maggior parte delle situazioni di vita).
Nelle relazioni interpersonali, ci possono essere almeno due forme di feedback:
– Un tipo è relativo all’output (che può essere un documento, una parte di progetto, un’informazione) fornito o ricevuto dall’altro;
– Il secondo ha a che fare con il modo in cui abbiamo lavorato per fornire quello specifico output; è il feedback sull’atteggiamento che usiamo, sul mindset, sulle soft skill agite.
La prima categoria di feedback può essere offerta o ricevuta solo alla fine di un processo, quando appunto il risultato richiesto viene consegnato; il tipo di informazioni che ci porta sono rilevanti perché ci dice se il nostro cliente (interno o esterno), il nostro capo o il nostro collega sono soddisfatti della qualità del prodotto che gli abbiamo fornito e ci permetterà, la prossima volta, di avere uno standard di riferimento da raggiungere.
Però, questo tipo di indicazione, data solo alla fine del processo e solo sull’output consegnato, non ci offre la visione del “com’è stato lavorare con noi”; e poiché il modo in cui si si sta mentre si viaggia influisce notevolmente sul nostro grado di apprezzamento della meta finale, va da sé che diventa importante anche avere dei riscontri sul nostro atteggiamento, sul valore umano che portiamo alla relazione interpersonale e al progetto durante il lavoro insieme.
L’intenzionalità della comunicazione nel telelavoro
Ora, ritornando al tema dell’intenzionalità della comunicazione nel lavoro da remoto, proviamo ad immaginare quanto sia ancor più importante per favorire la motivazione personale, il senso di scopo e di appartenenza di una persona che lavora fisicamente da sola, ricevere feedback sul suo contributo al progetto. E qui non si tratta solo di avere uno sguardo sull’apporto tecnico e di contenuto, ma anche e molto sull’approccio che ha nel lavoro in team: è disponibile o introvabile? è una persona che cerca soluzioni o si blocca di fronte alle difficoltà? il suo umore aiuta il coinvolgimento di tutti? È puntuale nelle consegne? Partecipa anche ai momenti di “chichat”?
Il fatto è che, per poter offrire questo tipo di “micro-informazioni” (ma molto preziose e potenti) ai miei colleghi o ai miei collaboratori che hanno una sede fisicamente molto distante da me non posso affidarmi solo alla casualità (perché non ci sarà l’occasione fortuita di incontrarli in corridoio per dare loro una pacca sulla spalla o per bersi la birretta dopo l’orario di ufficio). Devo essere intenzionale, che significa: voler farlo, trovare il tempo giusto per farlo e pianificare le attività necessarie per realizzarlo.
Per non appesantire la giornata già piena di call, report, videochat e “lavoro vero e proprio” possiamo farci aiutare da un sistema di feedback mensili che premia il merito come ad esempio Merit Money (e magari poi legarlo ad un sistema di incentivi) oppure da una videocall mensile facilitata con il metodo del “Thanks Circle”, o ancora sistemi di feedback istantanei supportati da app specifiche (che, tuttavia, necessitano un processo di accettazione e inserimento un po’ più lungo e complesso rispetto ai due precedenti).
In conclusione, quando le relazioni lavorative (e forse anche private!) sono a distanza, la comunicazione deve necessariamente diventare più intenzionale, più chiara e rivolta non solo al “fare” ma anche all’”essere”. Sia i membri di un team, sia i leader dovrebbero allenarsi ad utilizzare in questo nuovo modo la loro comunicazione, perché questo consentirà loro di non perdere la connessione umana a causa di un eccessivo (e comodo) affidamento sull’automatismo della connessione tecnologica