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I tre fattori di successo del Coaching in Azienda

Pubblicato il: 02/03/2016
Da: Dott.ssa Marta Trevisan
I tre fattori di successo del Coaching in Azienda

Qualche mese fa ho incontrato Il Direttore Risorse Umane (lo chiameremo Marco) di una grande azienda di servizi in provincia di Bologna con il quale ho un rapporto aperto e di confronto. Abbiamo parlato della sua opinione relativa al coaching e Marco mi ha confessato tutte le sue perplessità sullo strumento e sulla sua effettiva efficacia in azienda. Usando le sue parole “i coaching che abbiamo attivato in azienda sono stati semplicemente acqua fresca, non ho osservato alcun cambiamento significativo nei coachee”.

La conversazione con Marco mi ha dato l’opportunità di riflettere su quali possono essere gli elementi necessari per fare in modo che il coaching esprima tutta la sua potenzialità in azienda, cioè che faciliti e velocizzi il raggiungimento degli obiettivi che l’organizzazione si aspetta dal collaboratore che inizia un percorso di coaching.

Perché un intervento di coaching abbia successo sono indispensabili 3 fattori chiave:

– L’esplicitazione in modo chiaro del risultato che il committente desidera ottenere. L’esperienza mi ha insegnato che quando l’obiettivo da raggiungere non è stato esplorato in modo approfondito con il committente (di solito il responsabile risorse umane o il superiore del coachee), il processo di coaching sarà caratterizzato da sessioni interlocutorie e dalla sensazione di nuotare in un oceano in balia delle onde. Come scriveva R.M.Rilke “Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare, ma per noi che sappiamo anche la brezza sarà preziosa.” E’ compito del coach aiutare il committente a formulare l’obiettivo in modo che risponda ai criteri dell’obiettivo allenabile (vedi articolo http://www.logosme.it/obiettivi-buoni-propositi/).

– La trasparenza del rapporto fra committente, coachee e coach. Una volta esplorato e reso chiaro l’obiettivo che il committente desidera venga raggiunto dal coachee, diventa decisiva la condivisione con quest’ultimo del risultato atteso. Ultimamente ho condotto un intervento di team coaching in cui il committente (in quel caso il Direttore Generale) ha deciso di non essere presente in prima persona alla condivisione degli obiettivi di miglioramento con i coachees. In questo caso, quindi, è venuta a mancare la trasparenza nel rapporto fra committente e coachees e ciò ha influito molto sulla motivazione dei partecipanti a mettere in atto dei piani di miglioramento e, soprattutto, consentiva loro di non assumersene la responsabilità (“non dipende da noi, è la Direzione che non ci dà le indicazioni giuste”…”finchè l’organizzazione non chiarisce i processi, noi non possiamo farci niente…”).

E’ fondamentale, perciò, se vogliamo che il coaching non sia “acqua fresca”, che il coach organizzi un incontro triangolato fra committente e coachee; in questo meeting il coach ha il compito di facilitare la comunicazione fra le parti, in modo che l’obiettivo di miglioramento venga condiviso in tutti i suoi punti. Nella mia esperienza, i processi di coaching che hanno avuto maggior successo prevedevano un incontro triangolato anche a metà percorso.

Imparare ad imparare. So che un percorso di coaching ha funzionato quando, alla fine del processo il Cliente ha imparato a porsi da solo le domande “che cosa ho imparato da quest’esperienza? Che cosa è andato bene? Cosa poteva andare meglio?”. Il coach, secondo me, ha la responsabilità di sostenere il coachee ad osservare le evidenze dei suoi miglioramenti e dei suoi insuccessi e ha il compito di stimolarlo a fissare gli apprendimenti attraverso l’aumento dell’autoconsapevolezza.

 

Marta Trevisan

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