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Essere psicologo dell’emergenza al tempo del COVID-19

Pubblicato il: 04/27/2020
Da: Dott.ssa Eliana Pellegrini
Essere psicologo dell’emergenza al tempo del COVID-19

Sono una Psicologa e Psicoterapeuta. Questo è l’inizio di molti documenti formali che mi rappresentano: descrizione sul sito, sui social, sui volantini di seminari vari, sul cv.

Ho riflettuto spesso sulla parola “sono”.  Sono o faccio la psicologa? In molti manuali di risorse umane e di psicologia, viene descritto quanto sia fondamentale distinguere tra “sono quel lavoro e faccio quel lavoro”. È una regola di igiene mentale, serve a non iper investire nel lavoro a scapito della vita privata (vedi il workaholic) e a distribuire in modo più equilibrato la provenienza delle soddisfazioni/frustrazioni, tra sfera personale e sfera lavorativa. Ma ognuno di noi ha i suoi nodi irrisolti. Questo è il mio. E in questo periodo lo è ancora di più perché sono una volontaria di un’associazione di psicologi che agisce in scenari di emergenza.

Sapere cosa è la psicologia dell’emergenza ed essere formati ad operare come psicologi in emergenza porta ad agire in modo strutturato e questo è salvifico in questo momento, proprio per mantenere il confine dell’aiuto e per segnare la differenza tra sofferenza dell’altro e la propria. Perché in quarantena per il COVID-19 ci siamo anche noi psicologi. Ci sono anche io “Eliana”.

Il docente di un webinar, parlando della professione di psicologo ha detto: “non si sceglie di fare una professione di cura se non siamo stati feriti, noi siamo dei guaritori feriti”.

E in questo periodo le mie cicatrici interne mi ricordano che sono guarita e che posso aiutare.

E ci siamo dati da fare.

Come dice la nostra presidente: “Ognuno come può e per quello che si sente di dare. Ma ricordate che questa volta anche noi siamo coinvolti nell’emergenza, colpisce anche noi. Quindi, al primo segnale di difficoltà interna ditelo. Uno psicologo dell’emergenza non svolge bene la sua azione di volontariato se è troppo coinvolto e attivato a livello emotivo”.

In questo momento molti colleghi psicologi hanno dato la loro disponibilità ad essere contattati gratuitamente per svolgere attività di supporto e sostegno, rispondendo al loro bisogno di poter essere di aiuto e supporto.

Sapere come si agisce in emergenza ed essere parte di una rete strutturata di intervento però, ci rende efficaci in qualsiasi situazione possa presentarsi.

La valutazione del triage psicologico associato alla conoscenza di cosa si può fare in squadra, di come si attiva la rete sociale del soccorso, fa la differenza tra dare un supporto momentaneo, se pur efficace e invece risolvere una situazione che potrebbe esporre la persona ad un rischio per la salute psichica e fisica.

Nell’emergenza COVID-19, una grande mano per il supporto psicologico ci viene dalla tecnologia: le video call con persone che chiedono supporto, video informativi, gruppi spontanei di aiuto e vicinanza emotiva, scambio di materiale cartaceo, consigli, appuntamenti virtuali. Ci sono persone in questa emergenza che appartengono alla preistoria digitale e dunque sono escluse da questa importante fetta di supporto e aiuto. Il gap generazionale di cui tanto si parla, soprattutto nelle community dedicate al mondo del lavoro.

Ci si basa su un protocollo che definisce le prime regole dell’ascolto in emergenza rispetto ad un primo triage psicologico. La persona che ha chiamato, con la quale si parla, necessita “solo” di un supporto psicologico in emergenza? O potrebbe essere esposta ad un pericolo psico-fisico in emergenza? Questo è una distinzione fondamentale che modifica le azioni quando la telefonata si sarà conclusa. Si valuta immediatamente dopo se attivare la rete di sostegno: il gruppo di supervisione e il coordinamento per valutare il coinvolgimento del medico di base, delle strutture di assistenza, del sindaco, delle forze dell’ordine.

Nell’attuale del contatto telefonico, è fondamentale attivare l’ascolto attivo per fare un check rispetto al volume emotivo della persona  e grazie all’empatia (quella usata come tecnica, quella vera che usano come strumento gli psicologi) fare scendere l’attivazione psicologica.  Poi si stabilisce un contatto con la parte cognitiva della persona. si prosegue con il check sul fare: indagine sulle attività quotidiane e un po’ di psico educazione. E infine la stabilizzazione e il supporto “siamo qui per lei, non è solo, insieme ce la faremo” e le frasi a volte abusate nei social in questo contesto acquistano significato e diventano potenti.

Quando si conclude il turno si sente il bisogno di ricentrarsi, e di nuovo il mio nodo aperto:  sono o faccio la Psicologa?  Forse anche questa volta non lo risolverò, ma so di cosa ho bisogno: stabilire in equipe come procedere e  subito dopo accudire il proprio bisogno di ricaricarsi. Ogni professionista del supporto psicologico ha il proprio. Nella mia rete di protezione c’è: il gioco con il mio bambino, il contatto con i miei cari e la mindfulness che è quella roba strana che in tempi di tranquillità mi era sembrata interessante, ma poco efficace per me e che ora mi sta dando energia e spinta. Anche noi psicologi dell’emergenza, come tutti, abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri.

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